‘La battaglia dei sessi’ nell’era Trump e Weinstein

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Il 19 ottobre esce al cinema La battaglia dei sessi, il film con Emma Stone e Steve Carell, realizzato dalla coppia d’oro di registi Jonathan Dayton e Valerie Faris (gli stessi di Little Miss Sunshine), che racconta una storia vera, quella della tennista Billie Jean King che all’inizio degli anni 70 ha combattuto una battaglia per le donne, per le professioniste e per la libertà di genere.

Il fatto è che dovresti vederlo perché gli americani, quando si tratta di raccontare storie di vita che hanno lasciato il segno, sanno farlo bene, lo sanno rendere emozionale con il tocco chirurgico delle corde giuste, e, soprattutto, sanno come collegare, in un cortocircuito cronologico virtuoso, il presente e il passato, quello che è stato e che ancora oggi ha senso perché la battaglia non è ancora stata vinta. E su questo potremmo prendere a esempio quello che è accaduto con il caso Harvey Weinstein e Asia Argento. C’è anche quel pizzico di commedia che non guasta mai e Emma Stone e Steve Carell sono fantastici.

Quello che accadde a quell’epoca diede lo sprint finale a Billie Jean King e a quella che sembrava solo una battaglia interna al sistema. In quel momento alla direzione del Southwest Pacific Open c’era Jack Kramer, uno che in passato era stato tra i più grandi tennisti del mondo (nel 1947 aveva vinto Wimbledon), e per quel torneo aveva stabilito che il premio femminile ammontasse a 1.500 dollari, mentre quello maschile a 12.500. La disparità di genere, che oggi chiameremmo gender gap, era così palese che Billie Jean King non ce la fece a stare in panchina. In fondo, nell’animo, era una sindacalista che non avrebbe ignorato la spinta bellicosa che le aveva scatenato quella situazione.

Il principio di tutto era: se una partita femminile porta un pubblico pagante pari a quella maschile, perché le donne dovrebbero essere pagate di meno?

Beccati.

[Per dare un punto di riferimento il price money tra uomini e donne (singolare maschile e singolare femminile) è stato parificato nel 2007 a Wimbledon].

Con la bacchetta in resta e con l’aiuto di Gladys Heldman, all’epoca proprietaria del più importante mensile specializzato, World Tennis, organizzò un torneo parallelo mentre un vortice di “dichiarazione medievali” (casa-figli-cena-marito) pioveva su di loro e sulle donne in genere. Radunò intorno a sé alcune delle più grandi tenniste del tempo, fece firmare loro un contratto per la una nuova lega, la Virginia Slims, e si gettò a capofitto nell’avventura. Su tutte le campionesse aleggiava il pericolo della squalifica dalla federazione che significava non poter partecipare ai grandi tornei e rimetterci soldi. I soldi che erano lo stipendio.

Qualcuno all’epoca scriveva «Le ragazze sono maggiorenni e vogliono le chiavi per uscire». I tempi erano maturi.

Billie Jean King, Yvonne Goolagong, and Virginia Wade, seated on a bench at the Wimbledon tennis club. (Photo by © Hulton-Deutsch Collection/CORBIS/Corbis via Getty Images)

 Billie Jean King in primo piano

Questo fu solo un passo. Il peso di Billie Jean King aumentò con il contributo involontario, perché narcisistico, di Bobby Riggs, uno dei grandi del tennis che allora aveva più di 50 anni e sentiva la nostalgia del campo che non sopporta l’assenza dell’adrenalina che fa vibrare le arterie.

Riggs era un tipo controverso: uno con un debole patologico per la scommessa che nessun circolo anonimo o psicologo riuscì a contenere, un biscazziere compiaciuto e uno che, se non avessi visto sui campi da tennis, avresti incrociato quasi per certo su un tavolo di Las Vegas. Riggs faceva il suo gioco in tutti i sensi: giocava dove gli veniva meglio (ovvero sui campi da tennis), con le modalità che preferiva (ovvero quelle della scommessa) e con il piglio da one man show che, più che credere in quello che dice, lo fa per fare show-biz. Era quel maschio sciovinista, per sua stessa ammissione da smargiasso, a cui il pubblico femminile in campo appioppò il soprannome di “maiale”. Insomma, in fondo in fondo, faceva il suo gioco. Voci di corridoio di spogliatoio, come riporta lo stesso Gianni Clerici (uno dei più grandi giornalisti esperti di tennis), dicono che avesse scommesso sottobanco per quella stessa partita. Contro di lui.

In questa storia di Billie Jean King ce n’è un’altra, come a formare una serie di lotte correlate tra loro come le bambole di una matrioska. Billie Jean era nata Moffitt e King era il nome del marito Larry. A lui rimase legata per anni, ma quegli anni furono anche quelli dell’incontro con Marilyn Burnett e della scoperta della sua omosessualità. C’erano troppe cose per cui combattere insieme e quella sulla libertà sessuale avrebbe messo in discussione gli sponsor, la sua stessa carriera e quella voce sugli spalti che aveva conquistato per le donne. I tempi erano meno maturi per quello.

Dalla Virginia Slims, primo embrione, è nata la WTA, Women’s Tennis Association.

In quel frangente Billie Jean portò avanti quella del professionismo femminile per mantenere la voce alta, anni dopo lavorò sui diritti LGBT.

C’è un’ultima cosa da dire. Il tennis ha contato nella sua storia tre battaglie dei sessi. Quella che portò a casa i risultati fu Billie Jean King, prima di lei ci provò Margareth Court (nata Smith) contro lo stesso Bobby Riggs e dopo di lei tentò Martina Navratilova, un’altra grande del tennis che, oltre a essere omosessuale dichiarata, veniva anche dal blocco sovietico dell’est. Un posto mica facile per lei. La Navratilova fu sconfitta da Jimmy Connors nel 1992.

La verità è che, forse in una strana metafora cosmologica, la battaglia vinta una sola volta non è bastata. Ed è, oggi, troppo lontana nel tempo perché lasci i suoi residui migliori. Ben venga un film come La battaglia dei sessi per ricordarcelo.

Fonte: http://www.cosmopolitan.it/lifestyle/cinema/news/a119077/la-battaglia-dei-sessi-film-tennista-70-combattuto-per-le-donne-parla-di-oggi/