SERGIO DI MEO IL COSTO DEL LAVORO IN ITALIA

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IL COSTO DEL LAVORO IN ITALIA

 

Il lavoro, che svolge un ruolo molto importante nel funzionamento dell’economia globale, rappresenta per le imprese un costo che comprende non soltanto le retribuzioni corrisposte ai lavoratori, ma anche i contributi sociali a carico del datore di lavoro, i ratei di tredicesima e quattordicesima mensilità e del TFR e ogni altro importo attinente alla prestazione lavorativa. Esso è quindi uno dei principali fattori determinanti della competitività delle imprese, influenzata però anche dallo spirito imprenditoriale, dalla produttività del lavoro, dall’innovazione e dal posizionamento del marchio aziendale sul mercato. In Italia, il costo del lavoro è uno dei più cari d’Europa e la dimensione del cuneo fiscale rimane un forte ostacolo alla crescita e alla competitività delle imprese, allo sviluppo degli investimenti e all’espansione dell’occupazione. “Per queste ragioni bisogna ridurre la tassazione sul lavoro, iniziando dalla componete riconducibile ai lavoratori dipendenti: con buste paga più pesanti, infatti, è possibile riattivare in modo considerevole i consumi delle famiglie e rilanciare la crescita economica” afferma con enfasi Sergio di Meo, noto commercialista di Aversa, particolarmente qualificato nella consulenza del lavoro e legale alle piccole e medie imprese italiane (PMI).

 

di Roberta Imbimbo

 

Dott. Di Meo, qual è la situazione del costo del lavoro oggi in Italia?

Il costo del lavoro in Italia è tra i più alti d’Europa. Per le imprese italiane, infatti, questa voce erode gran parte del reddito disponibile, molto più di quanto non avvenga nelle grandi economie europee, come Germania, Francia, e Spagna. Come rilevato da Eurostat, nel nostro Paese, l’incidenza dei costi non salariali – ovvero i contributi sociali a carico dei datori di lavoro – è pari al 27,5% sul costo complessivo del lavoro. Questo fa sì che l’Italia sia meno competitiva di altri paesi. Nel Regno Unito e in Francia, ad esempio, la somma fra contributi a carico del lavoratore e dell’azienda risulta analoga, ma il prelievo fiscale risulta decisamente inferiore e i salari sono indubbiamente superiori: di conseguenza vi è una maggiore propensione al consumo e al risparmio. Il confronto con la Spagna vede un’imposizione sui redditi simile, ma un minore impatto della componente di costo relativa ai contributi. Solo in Italia, dunque, vi è una distanza ampissima fra redditi percepiti dal lavoratore e costi sostenuti dal datore di lavoro, che penalizza sia i consumi che la competitività delle stesse aziende. Non a caso, negli ultimi dieci anni, è sempre risultata ultima tra i paesi industrializzati: l’alto costo del lavoro per le imprese italiane oltre a rappresentare un importante freno all’occupazione, diventa spesso un incentivo al lavoro sommerso.

Cosa si può fare concretamente per ridurre il costo del lavoro?

A mio avviso, occorre urgentemente una politica di sviluppo adeguata a rilanciare la competitività delle aziende italiane; una Legge ad hoc per il Sud, che preveda agevolazioni e sgravi fiscali per le nuove assunzioni (e non solo di giovani, donne e over 50, come previsto dalle attuali disposizioni di legge). Con l’entrata in vigore della Legge del 2 maggio 1976, n 183, che prevedeva agevolazioni contributive decennali per le aziende del Mezzogiorno che impiegavano dipendenti, vi fu un boom enorme di assunzioni, con una conseguente considerevole ricaduta fiscale per lo Stato ed una drastica riduzione del lavoro nero. L’ultima legge che ha favorito le imprese italiane (e che ha determinato una forte crescita occupazionale) è stata senza dubbio la n. 407/90 che, all’art. 8 comma 9, prevedeva particolari agevolazioni contributive per un periodo di 36 mesi in favore dei datori di lavoro che assumevano, con contratto a tempo indeterminato (anche part-time), lavoratori disoccupati da almeno 24 mesi. L’abrogazione di tale legge ha penalizzato fortemente il Meridione, dove i datori di lavoro potevano accedere ad uno sgravio contributivo del 100% a partire dalla data di assunzione. Per ridare vigore alla crescita e all’occupazione, è necessario che il Governo agisca sui fattori che inibiscono le assunzioni dei lavoratori e che migliori il contesto economico in cui operano le aziende nazionali.

Per migliore tale contesto è necessario anche contrastare il lavoro sommerso. La legge di bilancio 2019 ha previsto un inasprimento delle sanzioni, giusto?

Esattamente. Gli alti costi del lavoro in Italia inducono molte imprese a non regolarizzare i propri dipendenti. Questa pratica, tuttavia, può risultare molto rischiosa sia per la sicurezza dei lavoratori che per le pesantissime sanzioni in cui potrebbe si potrebbe incorrere. Al riguardo l’art.1 comma 445 della Legge di Bilancio 2019 n.145 ha inasprito il sistema sanzionatorio aumentando del 20% tutti gli importi delle sanzioni portando così la maxisanzione sul lavoro nero a € 1.800,00 per ogni lavoratore non in regola nelle aziende.

Le conseguenze negative del lavoro nero non sono infatti solo legate al mancato gettito fiscale per le casse dello Stato, ma anche agli effetti deleteri che si abbattono sul sistema sano delle aziende che producono rispettando le regole. A rimetterci infatti sono le tante imprese artigianali e commerciali che subiscono la concorrenza sleale degli imprenditori che non si fanno scrupoli ad utilizzare lavoratori irregolari. Questi ultimi infatti, non essendo sottoposti ai contributi previdenziali, a quelli assicurativi e a quelli fiscali consentono alle imprese dove prestano servizio, di beneficiare di un costo del lavoro molto inferiore e, conseguentemente, di praticare un prezzo finale del prodotto o del servizio molto più contenuto rispetto a chi rispetta le disposizioni previste dalla legge.

Dottore, cambiando discorso, l’attuale emergenza Coronavirus impone una riflessione sugli ammortizzatori sociali, che mai come in questo momento diventano ancora più indispensabili per non lasciar cadere nell’angoscia economica, oltre quella sanitaria, milioni di persone. È di questo avviso?

Una premessa appare necessaria. Tra le misure di sostegno ad imprese e lavoratori contenute nel decreto-legge 18/2020, detto decreto Cura Italia, è prevista la possibilità di accedere, con procedura semplificata, alla cassa integrazione ordinaria, al FIS e alla Cassa Integrazione in deroga. Il problema degli AA.SS. in Italia è legato alla burocrazia e al meccanismo di autorizzazione da parte dell’Inps che prevede tempi oscillanti tra i 50/60 giorni per l’erogazione del trattamento; tempi che penalizzano fortemente sia le imprese che i lavoratori soprattutto in questo periodo storico dove, con le aziende chiuse, i lavoratori si ritrovano senza alcuna forma di reddito. Un paradosso tipicamente italiano se si pensa che tali misure sono state varate proprio per andare incontro alle famiglie in difficoltà!